Residenza fiscale e pagamento delle imposte sui redditi

 

L’art. 2, comma 2, del TUIR sancisce che “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”.

Pertanto, la residenza fiscale viene riconosciuta quando, per la maggior parte del periodo dell’anno, cioè per più di 183 giorni, il soggetto soddisfa almeno una delle seguenti condizioni:

  • è iscritto nelle anagrafi della popolazione residente;
  • ha fissato in Italia il proprio domicilio, ossia la sede principale dei propri affari ed interessi (articolo 43, comma 1, del Codice civile);
  • ha stabilito in Italia la propria residenza, ossia la dimora abituale (articolo 43, comma 2, del Codice civile).

Tali caratteristiche non sono alternative: se si verifica anche uno solo dei requisiti, si dovrà considerare il soggetto come residente fiscale in Italia. Solo qualora non si verifichi nessuno dei requisiti, allora il soggetto non potrà essere considerato residente in Italia.

Ai fini delle imposte sui redditi, devono essere tassati in capo a un contribuente tutti i redditi percepiti, indipendentemente dallo Stato in cui sono stati prodotti.

Per potersi iscrivere all’Anagrafe della popolazione residente è necessario stabilire la propria residenza o il proprio domicilio in un Comune del territorio dello Stato. Se si vuole, invece, procedere alla cancellazione dall’anagrafe, le persone fisiche che lo richiedono devono aver stabilito la propria dimora abituale all’estero e sono tenute all’iscrizione all’Anagrafe Italiana dei Residenti all’Estero (AIRE).

La Circolare n. 304/E/I/2/705 del 2 dicembre 1997 inoltre stabilisce che “la cancellazione dall’anagrafe della popolazione residente e l’iscrizione all’AIRE non costituisce elemento determinante per escludere la residenza o il domicilio dello Stato, ben potendo, questi ultimi, essere desunti con ogni mezzo di prova, anche in contrasto con le risultanze dei registri anagrafici”.
A conferma del principio dettato dalla summenzionata circolare si è espressa la CTR Lombardia con la recente sentenza n. 4515 del 10 settembre 2014. I Giudici della Commissione Regionale, infatti, hanno confermato la decisione della CTP di Milano respingendo il ricorso in appello del contribuente che, pur essendo iscritto all’Aire, di fatto avrebbe mantenuto in Italia il baricentro dei propri  interessi economici, nonché un legame effettivo e non provvisorio. In più il ricorrente non avrebbe dato dimostrazione di una dimora abituale personale o della propria famiglia nel Paese estero (per esempio contratti di locazione o di acquisto di immobile residenziale), ne tantomeno dello svolgimento di attività lavorativa o dell’esercizio di attività imprenditoriale con carattere di stabilità in detto Paese.

Così, per esempio, un contribuente assunto da una ditta estera dal 1° settembre 2014 e che decide di iscriversi all’AIRE entro la fine dell’anno, deve valutare dove egli abbia effettivamente la residenza fiscale per quell’anno.

Poiché egli è stato iscritto nell’Anagrafe della popolazione residente in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta, di conseguenza verrà considerato fiscalmente residente in Italia nel 2014. Dovrà, pertanto, dichiarare in Italia anche i redditi prodotti all’estero anche se regolarmente assoggettati a tassazione in quel Paese. Subirà allora una doppia tassazione.

La situazione verrà sanata attraverso un meccanismo per cui per le imposte pagate all’estero si genererà un credito d’imposta da far valere in sede di dichiarazione dei redditi in Italia.

Non bisogna dimenticare, infine, che ai fini della dichiarazione dei redditi è necessario indicare anche l’eventuale presenza di un conto corrente o libretto di risparmio estero. Il contribuente dovrà essere assoggettato a Ivafe (Imposta sul valore delle attività detenute all’estero) in Italia. In ogni caso l’obbligo di compilare il quadro RW del modello Unico scatta se il valore del conto corrente è uguale o superiore a 10.000 euro, mentre l’importo dell’Ivafe è fisso e pari a 34,20 euro. Quest’ultimo deve essere corrisposto solo con riferimento ai conti correnti e ai libretti di risparmio e soltanto se il valore medio di giacenza annuo è complessivamente superiore a 5.000 euro. Se il contribuente possiede rapporti cointestati, al fine della determinazione del limite di 5.000 euro si tiene conto degli importi a lui riferibili pro quota

 

Autore. Prof. Dott. Vittorio Alberto De Vincentis

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